Sul #16NOV a Pisa, il corteo per rioccupare l’Ex Colorificio

  • Dicembre 12, 2013 10:13 pm

Sabato 16 novembre una bella manifestazione ha sfilato per Pisa. Tantissime persone in corteo, allegre e determinate, si sono ritrovate in solidarietà ad uno spazio sociale da poco sgomberato, l’Ex Colorificio. Un corteo convocato a partire da un obiettivo dichiarato : “Ex Colorificio, è tempo di tornare”. L’epilogo però ha un sapore amaro. Non tanto perché non è stato riaperto il Colorificio, quanto perché “il fiume in piena” è stato infelicemente irreggimentato. Già dal Duomo un cordone di sicurezza si è sistemato all’altezza del camion per filtrare l’accesso alla testa del corteo, disponibile solo ai “gruppi d’assalto”, fascetta colorata al braccio. Il resto dei “partecipanti”, dietro.

La funzione del “servizio d’ordine”, in particolare una volta giunti davanti all’immobile sotto sequestro presidiato dalla polizia, è descritta dalle parole di un attivista vicino all’esperienza dell’Ex Colorificio sul suo blog .

“Una spiegazione necessaria: in genere, chi va alla testa dei cortei in queste occasioni tende a presentarsi come “professionista dei movimenti”. Con gli esiti di cui parlavo prima. Sotto vi racconto la novità.

Gli “assaltatori” sono stati divisi in tre gruppi, segnati da apposite fascette. Gialli, verdi, rossi.

 I gialli hanno proceduto ad assediare con inusitata violenza le forze di pubblica sicurezza. Uno sfrenato attacco di bolle di sapone. Uno stancante assedio di abbracci di tizi imbrattati con colori vivaci. Un violentissimo attacco di un ariete in polistirolo, con testa e corna di ariete. Una lunga danza del ventre. Bambini, insegnanti.

I verdi erano quasi riusciti nel loro intento. Per lo sfinimento delle forze di polizia, verso cui esprimo la massima solidarietà – ero al fianco di Rocco, il tizio su citato, ripreso nell’ allegato all’articolo del Tirreno. I verdi avevano la consegna di parlare con gli agenti. Raccontare la loro esperienza come pezzi sociali del Municipio dei Beni Comuni. Discutere del Colorificio, della connessione con gli articoli della Costituzione che parlano della funzione sociale della proprietà. Leggere passaggi di libri: Rousseau, Gramsci. Una sparatoria senza fine, specie da parte degli studenti che, per mano, si sono rivolti a volto scoperto verso i poliziotti e i carabinieri. Faccia a faccia con dipendenti dello Stato in uniforme e protetti da parastinchi, scudi, caschi. Con negli occhi, forse le immagini di un paese del Sud lasciato per uno stipendio sicuro. Con in testa, chissà, la venerazione dello Stato e del suo apparato d’ordine e sicurezza. Psicologicamente, unica garanzia nei tempi di crisi. Con nel cuore, possibilmente, urla delle curve degli stadi, colpi di pietre, sparatorie nelle periferie delle ricche città del Nord come nelle campagne del Meridione, in lotta ogni giorno contro la criminalità organizzata. Non ho mai balbettato tanto. Ma non pensavo che avrebbero anche ascoltato. Rocco, disgraziato.

I rossi hanno espresso un lungo ma ordinato tentativo di forzare il blocco degli agenti. A mani alzate, con la sola forza delle spalle e senza neanche un atto di violenza. Pazzesco, per i “professionisti dei cortei”!

Sarebbe interessante connotare i “professionisti del corteo”.

Potremmo farlo per continuità terminologica con quei “professionisti della politica” che, ormai invisi a milioni di persone, sono in varie forme stipendiati per occuparsi della “cosa pubblica” – sindacalisti distaccati che da anni non vedono un posto di lavoro, parlamentari assessori consiglieri e affini, portaborse, dipendenti di partito. Tutti soggetti che, nel prendere posizione e occuparsi di “interessi collettivi”, hanno in primis da considerare il mantenimento del proprio posto di lavoro, nel migliore dei casi, degli interessi della lobby di riferimento, negli altri.
O forse l’evidente disprezzo per il “professionista del corteo” discende dal dubbio amletico “ma chi li paga?” seminato in tanti anni contro i movimenti e, forse, interiorizzato.
Oppure, con un’accezione un po’ più condivisa, per “professionisti dei cortei” si possono intendere quei gruppi di manifestanti specializzati nello svolgimento di compiti e azioni di piazza preordinate e più o meno collettivamente concordate: allora gialli, verdi e rossi si sono comportati esattamente come “professionisti del corteo” svolgendo al meglio le loro funzioni.

Il problema è che l’obiettivo dichiarato prima della manifestazione non coincide con quello che il gruppo specializzato ha scelto di mettere in campo. E questo, per chiarezza, non perché il Colorificio non sia stato nuovamente liberato, dato l’apparato di forza messo in campo a difesa di quel luogo che vogliono riconsegnato all’apparato speculativo. Era proprio che quel terreno non interessava, in fondo neanche sul piano simbolico. Tanto che nella autonarrazione successiva scompare, quasi che tutta quella gente fosse andata in piazza con l’obiettivo di interloquire con le forze dell’ordine.

Normalmente quando si convoca la piazza su un obiettivo consapevoli di volerne praticare un altro, si parla di sovra-determinazione delle scelte di chi in piazza è sceso. Così come i modi di manifestare sono molteplici, anche le forme di sovra-determinazione possono esserlo. Non è scritto in nessun “manuale” che scegliere il colore, l’allegria e la non accettazione dello scontro debba essere sinonimo di marginalizzazione del corteo in favore di un gruppo scelto né tanto meno della trasformazione del conflitto in parodia.

Tornando a sabato e sorvolando sull’efficacia dei primi due gruppi d’assalto, al terzo assalto abbiamo assistito a donne ed uomini che per oltre mezz’ora hanno spinto – si sono appoggiati – sui cordoni di celere, in una dinamica evidentemente assolutamente concordata e con attenti registi pronti ad intervenire per sospendere il match per gioco falloso ogni qualvolta qualcuno prendeva troppo sul serio la parte a lui assegnata, spingendo un po’ troppo. Una specie di gioco del ponte, con tanto di “ooooisssa”, in cui però una delle due squadre in campo non aveva l’obiettivo di spingere il carrello dall’altra parte.

Finalmente, il cordone centrale delle forze dell’ordine, gestito dalla Digos, si apre; tre compagni accompagnati dal funzionario responsabile salgono per pochi minuti su un muro di accesso all’edificio sequestrato. A quel punto l’esultanza risuona dagli speaker del corteo: “abbiamo superato il blocco delle forze dell’ordine” “questa è la rioccupazione politica del Colorificio” e quanto altro si può immaginare nell’ottica di “produrre immaginario”, dove “rioccupazione politica” traduce non reale. Il dato, ripetiamo, non è la mancata occupazione, annunciata e quindi impossibile, ma la negazione che l’obiettivo – nonché il bisogno collettivo e l’espressione della volontà della piazza – fosse quello.

Se il risultato doveva essere questo, forse era meglio concordare che una delegazione fosse lasciata entrare ad appendere uno striscione dai balconi dell’edificio e avremmo risparmiato tempo. Ma non è sulla sceneggiatura che vogliamo disquisire. Ma sul soggetto, perché non è di libertà e di autonomia di pratiche di movimento che vogliamo parlare ma di un’idea di politica e dello spazio del movimento.

Perché scimmiottare e teatralizzare un momento di fronteggiamento con la polizia? Perché farlo se non è funzionale a raggiungere alcun obiettivo in quella piazza, in quella circostanza? Ciò che più è saltato agli occhi nella giornata di sabato è infatti questo: l’inadeguatezza di quella simulazione a rappresentare un rapporto reale. La sua portata mistificante. Il fatto è che è stato eliminato proprio qualsiasi elemento di ancoraggio alla realtà dell’esperienza politica di un anno di Ex Colorificio. Pensiamo si dia consistenza politica di un’esperienza laddove la realtà viene vissuta e interpretata come rapporto dinamico costruito dalla relazione tra soggettività, soggetti e interessi non coincidenti, spesso in antagonismo. Forzare questi rapporti, scomporli e ricomporli in processi collettivi, significa incidere e lavorare politicamente.

L’esperienza di un anno di Ex Colorificio ha avuto il merito di indicare ed attaccare il nodo reale della proprietà privata nelle dinamiche di esproprio ed accumulazione capitalistica. Affinché questa indicazione fosse radicata politicamente – e potesse durare un anno – e non restasse semplice opinione, è stato necessario occupare, ovvero praticare continuativamente una forma di illegalità. Su questo elemento, di non reintegrabilità è maturato uno scontro con le controparti, la proprietà privata e l’amministrazione comunale. Si sono definiti due poli opposti.

Quello cui abbiamo assistito invece è stata un’operazione di neutralizzazione della realtà dello scontro in atto, il quale, ha sempre una sua materialità manifesta: lo stato in armi contro i suoi cittadini. La polizia.
L’esagerata finzione non ha significato un tentativo di rappresentazione dello scontro in atto per neutralizzarlo in una simulazione di piazza che comunque restituisse la polarità anche se innocua dei soggetti (so di non poterlo ri-occupare ma indico anche la controparte, manifesto l’alterità rispetto a chi difende il diritto della proprietà versus il bene comune, magari agisco l’occupazione di un altro spazio a significare i bisogni reali), come ci aspettavamo. La rappresentazione si è fatta ambigua. È diventata rappresentazione della neutralizzazione dello scontro e non dello scontro stesso. Un abbraccio con la polizia.

Anche qui ci preme sottolineare che per noi la questione non è di “estetica” o di pluralità di pratiche. Si tratta piuttosto del rapporto tra queste, i contesti in cui devono maturare, e gli obiettivi.
In altri termini ci interessa riflettere su una questione: a chi giova la neutralizzazione dello scontro? Chi vince nella rinuncia unilaterale al conflitto? Chi aumenta il proprio rapporto di forza nel momento in cui si predetermina lo svolgimento di un corteo?
Il #16N a Pisa ci è sembrata all’opera quella concezione della politica per cui i risultati possono essere ottenuti “piacendo” alla controparte (semplificando, così definiamo chi ci governa e chi detiene il potere politico ed economico), “convincendola” a partire da un comune riconoscimento di appartenenza alla medesima comunità umana, e non come effetto di una dialettica basata su una pluralità di pratiche e messaggi, ma ancorate alla definizione di un “noi” contrapposto ad altri interessi. Non è questione di “picchiare gli sbirri”, né di “farsi picchiare da loro”, bensì di pensare all’ottenimento dei risultati come prodotto di un conflitto, in cui si inizia a rifiutare di essere sottomessi e non di invitare i propri aguzzini ad essere clementi.

Ciò vale sia per il ruolo specifico delle forze dell’ordine, che anche quando si comportano in termini di “dialogo” – con le realtà politiche organizzate, dato che con i proletari comuni le relazioni sono di tutt’altro tenore – lo fanno sempre a partire da un interesse superiore che è quello di una pacificazione ottenuta per il mantenimento dello status quo; sia soprattutto per la nostra appartenenza ad una macro classe sociale in via di generalizzazione (il 99%?) per cui la lotta contro l’austerità e la riappropriazione di tempi, spazi di vita e dignità non può essere affidata alla magnanimità delle classi dirigenti.
Il legame tra conflitto e consenso tante volte evocato, non può risolversi con l’eliminazione del primo termine, piuttosto pensiamo che vada ricercato con lo sforzo continuo e profondo della costruzione di una nuova legittimità fondata su pratiche e contenuti sociali che si riproducano all’interno di significativi segmenti di massa. È così per l’occupazione, è così per i picchetti antisfratto, così sarà – cerchiamo di farlo essere – per nuove e più radicali forme di riappropriazione.

Pur consapevoli che ogni territorio e ogni lotta hanno le proprie specificità, ma proprio partendo dall’idea della continuità sul #16N rivendicata nell’indizione della manifestazione pisana, pensiamo a quanto il movimento valsusino contro il Tav sta, da tempo, indicando alle altre espressioni di movimento sul territorio nazionale. Il movimento No Tav, costruendo progressivamente la sua maturità e dimensione di massa, ha imparato a confrontarsi per trovare pratiche condivise, non alimentate dall’autorappresentazione ma di volta in volta adattate al terreno di scontro collettivamente prescelto: dal sabotaggio al cantiere, al blocco dell’autostrada, alla manifestazione “colorata” con decine di migliaia di persone a Susa.
In ogni caso l’obiettivo è chiaro, non mediabile e non risolvibile sul terreno dell’immaginazione. Perché sempre di conflitto si tratta: qualcuno sta da una parte, qualcun altro dall’altra. Chi vuole devastare la Val Susa per interessi mafiosi e di partito è nemico del popolo che in quel territorio vuole vivere e crescere i propri figli.

E per guardare nel piccolo della nostra città, altre resistenze parlano della stessa determinazione e della stessa volontà di condividere obiettivi e percorsi: le donne della Sodexo per mesi hanno sfidato il datore di lavoro, l’Azienda Ospedaliera, i sindacati confederali e i partiti al governo della città. Hanno indicato che solo nella condivisione assembleare, nel vivere insieme nei presidi, nel riscoprirsi dignitose e fiere, nel non cedere ai ricatti, nel non accettare accordi al ribasso, poteva darsi il senso della loro lotta. E quella lotta hanno vinto.
Così stanno facendo gli abitanti di S. Ermete, stanchi di degrado, topi, abbandono, amianto e disagio. Ritrovandosi e mettendosi in discussione, pensando ed elaborando, fino a strappare risultati ad una controparte più che ostile. Risultati che non sono gentili concessioni ma diritti inalienabili.
Analogamente vediamo che la determinazione degli inquilini, italiani e migranti, a non subire gli sfratti per morosità incolpevole sta, da un lato, accelerando meccanismi di solidarietà reciproca che traducono il riconoscersi collettivamente come portatori di bisogni indiscutibili, dall’altro costringendo la controparte, non solo la proprietà ma anche Comune, Società della Salute, Prefettura, a individuare percorsi possibili, al di là delle banali dichiarazioni sul “non parleremo mai con…”.

Tentare di modificare i rapporti di forza esistenti, questo fanno i movimenti. Succede – in Valle, nella difesa del diritto alla casa, negli scioperi generali, nella manifestazioni studentesche, nei picchetti dei lavoratori migranti –  che questa realtà con la quale ci si scontra abbia anche le forme spigolose delle denunce, delle manganellate, o degli abusi da parte delle forze dell’ordine. Eppure, quando accade, si deve correre il rischio perché la priorità è incidere sui rapporti reali e quegli spigoli scheggiarli assieme. È la politica, è la sfida di chi si ostina a praticare e sviluppare un’alterità.
Lo spazio politico cittadino di movimento vive della tensione di quanti con gli spigoli della realtà si scontrano; è uno spazio certamente plurale ma non può essere né mistificato rappresentando la negazione del conflitto, né trasfigurato diventando il palcoscenico per rappresentare “comunità” più o meno virtuose, felici e colorate ma non disponibili a riconoscere la realtà dello scontro.

Quel mettersi in gioco, quel “correre il rischio”, che a volte diventa anche “pagare un prezzo”, ha qualcosa a che spartire con l’estetica, il narcisismo, il machismo?
Ancora una volta, provando a confrontarsi con “le cose che avvengono” e non con l’autonarrazione, ci poniamo – e poniamo – delle domande. Quando quello che conta è la rappresentazione fine a sé stessa, possiamo parlare di compiacimento estetico, di narcisismo autocentrato? Quando la rappresentazione tende a marginalizzare persino gli spettatori, usandoli come “riempitivo” o come garanzia per la soddisfazione del proprio bisogno di auto rappresentazione, siamo forse così lontani dal machismo?

Forse estetica, narcisismo, machismo stanno dalla parte di chi, svuotando di significato anche la rappresentazione delle parti in conflitto, si preoccupa solo di rivedere la sua faccia nei video e nelle foto del giorno dopo senza mai mordere un pezzetto di realtà. Evidentemente a furia di arrovellarsi per produrlo questo benedetto immaginario si è ridotto solo a un po’ di immaginazione. Come una bolla di sapone. E va bene farsi bastare quella, accontentandosi di “immaginare” di aver scalfito i sentimenti degli uomini in divisa, senza lasciarsi consumare dal dubbio che non sia cambiato niente. Tanto che “la vittoria è esserci, alla fine”. Esserci appunto. Nelle auto narrazioni, dovremmo aggiungere. Forse tornare al Colorificio, alla fine non era l’obiettivo della giornata.

Il #16N è stata giornata di mobilitazione ampia. La realtà di un #fiumeinpiena di riscossa dei territori in lotta con il degrado e l’avvelenamento della terra e delle nostre vite. Contro lo stato di assedio che istituzioni statali e forze dell’ordine impongono a un’intera valle per difendere un’opera inutile e dannosa. Contro le sevizie e gli stupri che uomini in divisa praticano su donne e uomini nei Cie. Quale il filo di continuità con il #16n pisano?
A Pisa c’è stato un difetto di realtà. Nelle sue forme gli organizzatori hanno precluso qualsiasi spazio di effettiva partecipazione. Un unico obiettivo è stato perseguito nella pratica di piazza: rappresentare un modo di essere – piuttosto che gli interessi – di una comunità raccolta attorno a uno spazio sociale sgomberato. Rispetto a questa comunità sono stati concessi solo due modi possibili di stare: o l’appartenenza e dunque l’esserne attori o – anche per chi con questa ha voluto solidarizzare – la non appartenenza e dunque l’esserne spettatori. I partecipanti al corteo, generosi come sempre a Pisa quando vengono toccati gli spazi sociali, sono stati tenuti a distanza dai cordoni degli striscioni, separati e lontani dall’Ex Colorificio, relegati ad assistere ad uno spettacolo i cui gli unici protagonisti erano gli attivisti dei gruppi d’assalto con le fascette al braccio e la polizia. Una rappresentazione, tra l’altro, solo narrata dalla radio cronaca diffusa dal camion, date le distanze.

A dispetto della “novità” e “diversità” dichiarata, quanto vissuto ha rivelato un amaro e stantio retrogusto, un misto di inimicizia verso la partecipazione conflittuale e di autoritarismo come antidoto a questa.
Anche dove non c’è nessuna “zona rossa” questa viene costruita e direttamente introiettata nelle pratiche espropriando i manifestanti della partecipazione.
Pochi interventi al microfono, tutti rigorosamente concordati. Nessuno spazio alle realtà affluite al corteo né ai singoli. Una scelta di “gestione della piazza” tutt’altro che originale, crediamo, mille volte rivista nelle manifestazioni dei sindacati confederali. Nessuna sfumatura o diversità: democrazia, partecipazione o autoritarismo?

Eppure tra quei cordoni che premevano sugli scudi della polizia abbiamo visto i visi di tante persone appartenenti al movimento e all’associazionismo pisano nei confronti delle quali proviamo stima e rispetto, che spesso abbiamo incontrato nei percorsi di lotta, nella condivisione di contenuti comuni e nei momenti di socialità. Vogliamo con queste nostre righe aprire una riflessione critica su lotte e movimenti perché pensiamo che la nostra città, così ricca di genuina conflittualità reale non abbia bisogno di finzioni.
Perché, ancora una volta lo vogliamo affermare con forza, non pensiamo sia in questione la libertà e la pluralità delle pratiche di movimento. Crediamo però che compromettere la realtà dello spazio di movimento in città secchi il greto del fiume piuttosto che trasmetterne la forza.

Ci sentiamo parte di una cultura politica di movimento e del conflitto che, per sviluppare e allargare un’alterità effettiva, si radica in un “esser contro” rispetto ai rapporti che governano l’esistente. Rispetto a questo posizionamento nella realtà sociale, in tutti i contesti che come compagni e compagne viviamo e nei quali lottiamo, l’aspetto dello scontro è una variabile capace di maturare e di esprimersi a livelli più o meno alti o più o meno bassi di intensità. Lo scontro può essere evitato per scelta, ma non negato nella sua esistenza, nei rapporti di forza che lo istituiscono, che subiamo e proviamo a ribaltare.

Ciò che ci preme è l’affermazione di una realtà e di una semantica comune a quanti rischiano, mettendosi di traverso per costruire spazi di resistenza e di cambiamento. Pretendiamo che questa realtà venga riconosciuta e che venga rispettata non trasfigurandola con operazioni che al simbolico affidano la neutralizzazione del conflitto che quotidianamente viviamo nei quartieri, nei posti di lavoro, nelle scuole e nelle università. Perché del conflitto non decide l’estetica ma lo stare da una parte, il parteggiare entro uno spazio di realtà condivisa di movimento. Rispetto a questo, come dice la filastrocca, chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori, dietro la tana – simulare – non vale.

Spazio Antagonista Newroz