Dall’Ilva di Taranto oltre la contraddizione lavoro-nocività
Come costruire l’alternativa all’esistente quando questo s’impone nelle dure forme dell’impoverimento e del ricatto? Come sottrarsi all’ unica alternativa offerta: o questo lavoro, con tutte le sue nocività, o miseria? Questi alcuni degli interrogativi che hanno animato il dibattito assieme ai due membri del “comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” ospiti dello s.a. Newroz di Pisa all’interno di una due giorni di iniziative che ha voluto mettere a tema la lotta tarantina di questi ultimi mesi indagandola come esperienza comune e generalizzabile di costruzione di riscatto sociale. La partecipazione al dibattito dei lavoratori della Piaggio e della Ceva, dei precari, degli interinali e degli studenti ha posto immediatamente il problema della ricomposizione delle figure sociali sfruttate dentro la crisi, ribadendo, ancora una volta, come la possibilità della trasformazione dell’esistente non possa passare che per il protagonismo sociale dei soggetti in lotta.
Infatti, a propostito del “caso Taranto”, l’ordine di sequestro degli impianti dell’Ilva da parte del gip Patrizia Todisco, altro non ha fatto che sancire una presa d’atto dell’esistente. Ha denunciato la “saturazione dello sfruttamento del territorio” da parte dell’industria di Riva e di tutto un sistema di produzione industriale su quel territorio.
Il sequestro degli impianti ha inoltre palesato un unico fronte che dall’unità dei sindacati confederali ai partiti, al governo, fino alla controparte padronale si schiera, in un’unica grottesca alleanza, per la difesa degli stabilimenti in nome del produttivismo e facendosi scudo del ricatto occupazionale che il territorio ionico bene ha imparato a conoscere.
La presa d’atto della saturazione dello sfruttamento segnala la frattura tra discorso del potere e discorso del territorio. Un potere che vorrebbe legare unicamente a sé le relazioni sociali e produttive sul territorio.
Su questa frattura la cooperazione sociale, con la forza dell’autorganizzazione di chi, in questi meccanismi di sfruttamento e di sacrificio si trova coinvolto, ha saputo però imporre un nuovo ordine di discorso, ponendo, anche nella fisicità delle sue azioni, la separazione tra città e produzione industriale.
Oltre l’agire della magistratura, il “comitato liberi e pensanti” ha saputo imporre una domanda precisa: l’Ilva si è mangiata Taranto. Ora non si tratta più di coniugare ambiente lavoro ma piuttosto di chiederci quale lavoro vogliamo e, dunque, quale città vogliamo.
È in gioco, in una dinamica di riscatto comune, il significato stesso della città, il significato delle nostre vite, il valore che attribuiamo a queste e a ciò che vogliamo produrre.
Ciò che sorprende dell’esperienza del comitato è la capacità di affermare una dinamica collettiva di ricomposizione cittadina perseguendo un metodo opposto a quello delle lotte sull’ambiente. Un metodo capace di rintracciare i soggetti e le figure escluse dalla città industriale (mitilicoltori, agricoltori allevatori, gli abitanti dei quartieri) coinvolgendoli in un discorso comune di costruzione di futuro insieme agli operai che da dentro la fabbrica vogliono finalmente negare il ricatto tra diritto alla salute e lavoro iniziando a immaginare come slegare il reddito e dunque le forme di vita future nella città da quell’unico lavoro imposto dentro l’Ilva.